La Riforma Costituzionale punto per punto, a cura di Andrea De Pasquale


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Personalmente ho affrontato la lettura puntuale delle modifiche con un certo timore, avendo un orientamento politico per il SI’ ma temendo di trovare nel testo cose non condivisibili, date le critiche dei sostenitori del NO in circolazione ormai da mesi. Invece il testo a fronte ha reso ancora più convinto il mio voto favorevole, anche dal punto di vista tecnico (feci la tesi di Giurisprudenza proprio sulla Costituzione, leggendomi mesi di dibattito in Assemblea Costituente). E soprattutto non ho trovato proprio nessun appiglio di “restringimento della democrazia” e “deriva autoritaria”, accuse evidentemente mirate a spaventare un elettorato poco informato, più che ad argomentare tesi giuridicamente fondate.

[Andrea De Pasquale]

 

Ecco i 14 punti principali affrontati uno per uno:

1. L’ITER PARLAMENTARE (2 ANNI E 6 APPROVAZIONI)

Ho deciso quindi di leggermi anche un po’ dei lavori parlamentari che hanno portato al testo sul quale voteremo, scoprendo che nei 2 anni di discussione in Parlamento (dall’8 aprile 2014 al 15 aprile 2016) per totali 6 votazioni (sei, 3 alla Camera e 3 al Senato) il testo originale del Governo è stato emendato in oltre 60 punti con proposte di deputati e senatori, che hanno reso meno “fluido” il fraseggio, ma hanno fortemente contribuito al testo finale, poi approvato con ampia maggioranza: in Senato (1° lettura) con 178 voti favorevoli, 17 voti contrari, 7 astenuti (202 votanti), poi (2° lettura) con 180 voti favorevoli; 112 voti contrari; 1 astenuto. Alla Camera (1° lettura) con 367 voti favorevoli, 194 voti contrari e 5 astenuti, poi (2° lettura) con 361 voti favorevoli, 7 voti contrari, 2 astenuti.

La riforma è quindi stata ripetutamente votata da una maggioranza intorno al 58%, superiore a quella richiesta (la metà più uno), come prescrive la Costituzione, e sempre secondo la Costituzione viene ora sottoposta a Referendum. Il governo non ha mai posto la fiducia. Come si può dire che è una riforma “imposta” dall’esecutivo?

Entriamo ora nei contenuti della riforma, leggendola insieme punto per punto.
Il testo lo trovate sul sito della Camera dei Deputati [qui]

2. I PRINCIPI FONDAMENTALI E I DIRITTI-DOVERI NON VENGONO TOCCATI

In primo luogo questa riforma non cambia nulla dei “Principi Fondamentali” (articoli da 1 a 12), né della Parte Prima “Diritti e doveri dei cittadini” con i relativi Titolo I (rapporti civili), Titolo II (rapporti etico-sociali), Titolo III (rapporti economici): fino all’articolo 47 la Costituzione non viene proprio toccata.

La prima modifica arriva al 48 (siamo nel titolo IV “rapporti politici”), dal quale viene tolta la parola “Senato” rispetto al voto degli italiani all’estero. Del resto, tutta la riforma si concentra sulla Parte Seconda, ovvero l’Ordinamento della Repubblica, a partire dall’articolo 55 in avanti. Interviene cioè sui meccanismi di funzionamento, sull’organizzazione, su una “macchina istituzionale” che dopo 68 anni ha evidenziato il bisogno di qualche manutenzione.

In secondo luogo, molti articoli cambiano per adeguamenti soltanto lessicali: ad esempio la modifica testuale da “Le Camere” a “La Camera dei deputati” ricorre ben 26 volte, al 48, 60, 61 (x2), 69, 72, 73, 77, 78, 79, 80, 81 (x3), 82, 85, 86, 87 (x2), 88, 94 (x3), 121, 122. Allo stesso modo “comunitario” diventa “dell’Unione Europea” (3 o 4 volte), e viene tolta la parola “Provincia” lasciando “Città metropolitana” (una decina di volte). Dire che la riforma “stravolge” la Costituzione perché interviene su 50 articoli è quindi infondato e fuorviante.

I due pilastri fondamentali della riforma sono il superamento del bicameralismo paritario e il riordino delle competenze legislative tra Stato e Regioni. Partiamo dal primo.

3. DAL BICAMERALISMO PARITARIO A QUELLO DIFFERENZIATO

Con in nuovo art. 55 si passa dal bicameralismo paritario a quello differenziato, per cui le Camere non fanno più – come adesso – esattamente le stesse cose, ma svolgono ruoli diversi: una “rappresenta la nazione”, l’altra “rappresenta le istituzioni territoriali”.

In particolare la Camera dei deputati:
1. è titolare del rapporto di fiducia con il Governo,
2. esercita la funzione di indirizzo politico e quella legislativa
3. e quella di controllo dell’operato del Governo.

Mentre il Senato:
1. esercita funzioni di raccordo tra Stato ed altri enti.
2. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione
3. Esercita il raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea.
4. Partecipa alla decisioni dirette alla formazione e attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’U.E, e valuta le politiche pubbliche e verifica l’impatto delle politiche dell’U. E. sui territori.
5. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge, e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato.

4. Il NUOVO SENATO

Se diversi sono i ruoli e le funzioni, diverse dovranno essere pure la composizione e la legittimazione. Per questo, mentre la Camera resta immutata (art. 56), il Senato (art. 57) sarà composto da 74 consiglieri regionali (minimo 2 per Trento, Bolzano, Val d’Aosta, Molise; massimo 14 per la Lombardia; per l’Emilia 6) e 21 sindaci, per un totale di 95 membri eletti dai consigli regionali + 5 di nomina presidenziale (100 in totale).

E’ fondamentale infatti la coerenza tra legittimazione (ovvero metodo elettivo) e compiti istituzionali. Non starebbe in piedi che un Senato eletto come la Camera facesse cose diverse. Per fare cose diverse deve anche attingere ad una diversa legittimazione. Che è quella di rappresentare i territori, a costo di premiare la geografia a scapito della demografia: le regioni meno popolate (come Valle d’Aosta o Molise) ottengono infatti una rappresentanza superiore (paragonata al numero di abitanti) rispetto a quella di Roma o della Lombardia. Ma è esattamente questo lo scopo delle “Camere delle Regioni”: sovra-rappresentare aree periferiche e meno popolate rispetto a quelle centrali e densamente abitate. Non a caso il senato USA è composto di 2 senatori per Stato, indifferenti al numero di abitanti.

I membri del Senato decadranno da senatori allo scadere della carica locale in forza della quale erano stati eletti: d’altronde se entri in Senato in forza del mandato di rappresentanza che primariamente svolgi sul territorio, è del tutto naturale che al termine del mandato primario tu decada anche da quello di secondo grado. Sarebbe incongruo il contrario. I senatori di nomina presidenziale non sono più “a vita”, ma durano in carica fino al termine del mandato presidenziale (massimo 7 anni), per favorire il ricambio (art. 59).

Le modalità tecniche per l’elezione dei senatori sono demandate ad una legge, esattamente come avviene già oggi con la legge elettorale (che giustappunto non è “costituzionalizzata”). Chi grida allo scandalo per la mancanza – nella riforma – di una norma di dettaglio sul metodo elettorale del Senato, rinviato alla legge, forse non ricorda che è già così anche adesso, perché così vuole proprio la Costituzione.

Le possibili difficoltà di sovrapposizione del ruolo di senatore con “funzioni di governo regionali o locali” sono motivo di limitazione alla nomina o all’elezione al Senato (art. 63). A dimostrare che anche gli estensori della riforma sono consapevoli delle possibili criticità, che vanno appunto gestite a livello regolamentare. Già oggi i sindaci delle grandi città e gli amministratori regionali delegati a trattare con i ministeri sono a Roma mediamente 2 volte al mese, e nell’era di Internet e dell’Alta Velocità (cose che i Padri costituenti non avevano e non immaginavano) non dovrebbe essere difficile far convivere impegno sul territorio e in Senato (in Germania la Camera delle Regioni si riunisce una volta al mese).

L’indennità viene riconosciuta ai soli deputati (art. 69), mentre i senatori dovranno “accontentarsi” della retribuzione già percepita come amministratori, e si introduce per gli eletti in Parlamento “il dovere di partecipare alle sedute dell’Assemblea e ai lavori delle Commissioni” (art. 64). Visti i casi di assenteismo parlamentare (eletti che non si fanno più vedere se non sporadicamente), mi sembra una novità importante.

5. LEGGI MONOCAMERALI (95%), LEGGI BICAMERALI (5%) E VOTO A DATA CERTA

Arriviamo quindi all’articolo 70, il più criticato di tutta la riforma, centrale perché stabilisce i diversi procedimenti legislativi:

• il procedimento bicamerale (solo per determinate categorie di leggi, elencate in modo esaustivo al comma 1), dove le due Camere si comportano come nel sistema attuale (esercitano la funzione legislativa in modo paritario). Si tratta di circa il 5% della produzione legislativa su base storica.

• Il procedimento monocamerale partecipato per tutte le altre (ovvero il 95% dell’attività legislativa); l’approvazione spetta alla sola Camera, mentre il Senato ha 40 giorni di tempo per intervenire (a richiesta di un terzo dei componenti), facendo proposte di modifica, che la Camera è libera di accogliere o respingere.

A tale secondo procedimento sono riconducibili due varianti, il procedimento monocamerale “rinforzato” (comma 4), dove l’esame del Senato è disposto a prescindere dalla richiesta di 1/3 dei componenti), e dove la Camera può non conformarsi alle richieste del Senato solo pronunciandosi a maggioranza assoluta, e il procedimento monocamerale di bilancio, nel quale l’esame del Senato è automatico e i tempi sono più stretti.

Le leggi che restano “bicamerali” (sulle quali il Senato ha un ruolo decisivo, e non solo consultivo) sono di 3 tipi:
Leggi di sistema o di garanzia (costituzionali, ratifica trattati Unione Europea, referendum)
• Leggi relative al Senato e allo Status dei senatori (legge elettorale, incompatibilità)
• Leggi sull’ordinamento degli enti territoriali (assetto di Regioni, Città Metropolitane, Comuni, ecc.)

Su tutte le altre leggi, benché di competenza della Camera (monocamerali), il Senato ha comunque facoltà di pronunciarsi, a richiesta di un terzo dei componenti (34), ma deve farlo entro il termine di 40 giorni. E’ il famoso “voto a data certa” introdotto dalla riforma contro la pessima abitudine dell’attuale sistema di allungare i tempi senza limite, quasi che il tempo sia una risorsa infinita e che la politica possa permettersi discussioni interminabili e rinvii pilateschi per anni e anni. Una prescrizione di buon senso, quasi ovvia, che semplicemente riavvicina i metodi della politica a quelli della vita normale, dove famiglie, imprese e singoli cittadini sanno di dover prendere decisioni in tempi definiti, e non espandibili a piacimento.

Chi vede nel voto a data certa l’inizio della “deriva autoritaria” evidentemente identifica la democrazia con la palude inconcludente che spesso abbiamo visto all’opera in Parlamento, dove “destra” e “sinistra” sono talvolta pure convenzioni, e dove in realtà le forze politiche si sostengono a vicenda nella rappresentazione di uno “scontro” teso soltanto a riprodurre e consolidare un ceto politico parassitario e preoccupato di sé. A mio parere il voto a data certa è invece il minimo per non spaccare definitivamente il paese tra ceto politico e classi produttive. Perché chi lavora sa benissimo che le decisioni vanno prese “per tempo”, e che la democrazia non può essere la scusa per rinviare le scelte e tirare a campare per un altro giro elettorale.

Infine la critica alla qualità letteraria dell’articolo 70 (“passa da 9 parole a quasi 500!”) è vera ma anche ovvia, nel momento in cui si passa dal bicameralismo paritario (“la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere“) a quello differenziato, dove occorre appunto fissare i confini delle competenze e delle prerogative reciproche. Inoltre, chi volesse andarsi a leggere i commenti degli stessi Costituenti (Calamandrei, Mortati, Dossetti) all’indomani dell’entrata in vigore (gennaio 1948), troverà anche allora la stessa delusione (“testo pasticciato, mal scritto, disorganico…”)

Ah, dimenticavo: il Senato può anche – a maggioranza assoluta – proporre un disegno di legge alla Camera, che deve pronunciarsi entro 6 mesi (art. 71 comma 1).
Quindi riassumendo il nuovo Senato:
A – DEVE esprimersi al pari della Camera sulle leggi bicamerali (art. 70 comma 1);
B – PUO‘ esprimersi (entro 40 giorni) su tutte le altre leggi monocamerali (art. 70 comma 3);
C – PUO’ proporre disegni di legge alla Camera (art. 71 comma 2).

Non mi sembra affatto un Senato svuotato come dichiarano i critici della riforma: semmai specializzato.

6. LE LEGGI DI INIZIATIVA POPOLARE

Anche il popolo “esercita l’iniziativa delle leggi” (art. 71 comma 2), con due modifiche: le firme necessarie passano da 50 a 150 mila, ma in cambio si introduce l’obbligo che la discussione e la deliberazione sulle proposte di legge popolari siano “garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti“. Oggi invece le leggi di iniziativa popolare sono bellamente ignorate: su 260 presentate dal 1979, solo 3 sono diventate leggi, mentre oltre la metà (153) sono rimaste nei cassetti e non sono nemmeno state discusse. Lo scriveva anche Il Fatto quando non era ancora sceso in campo per il NO (“Leggi di iniziativa popolare, i cittadini propongono, e il Parlamento affossa. Una cosa gravissima”, 26 gennaio 2015) Alzare la soglia (50.000 firme erano poche nell’Italia dei 40 milioni di abitanti, ancor di più in quella odierna da 60) e rendere obbligatoria la pronuncia delle Camere ha l’effetto oggettivo di accrescere, e non diminuire, la rilevanza dell’iniziativa popolare in materia di leggi.

Vengono introdotti (art. 71 comma 4) nella Carta fondamentale due nuovi tipi di referendum, quello propositivo e quello di indirizzo, che dovranno essere disciplinati con legge costituzionale.

7. I POTERI DEL GOVERNO: VOTO A DATA CERTA E LIMITI AI DECRETI LEGGE

L’art 72 al 7° comma dice che il Governo “può chiedere alla Camera di deliberare che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva”. E tutto questo in tempi definiti: 5 giorni per iscriverlo all’ordine del giorno, 70 giorni per pronunciarsi. Ecco il secondo caso di “voto a data certa”, ad evitare balletti e rinvii di cui la nostra storia politica è purtroppo assai ricca.

Secondo il fronte del NO questa previsione (peraltro modificata durante il dibattito in Parlamento) ridurrebbe gli spazi di democrazia e conferirebbe troppo potere al Governo, permettendogli di imporre alla Camera 75 giorni per prendere posizione su una legge. Ma questo è vero solo su una legge considerata “essenziale per l’attuazione del programma”, ovvero promessa in campagna elettorale, ed è sempre escluso per le leggi a procedimento bicamerale e per altre che vengono elencate (come ratifica trattati internazionali, indulto e amnistia, legge di bilancio…) In questo modo si vuole evitare che chi vince possa trincerarsi dietro l’immobilismo parlamentare per non realizzare quanto promesso. Pericoloso? Autoritario? Antidemocratico? A me non sembra. Anzi, trovo che questa innovazione aggiunga non tanto (e non solo) efficienza (che già non sarebbe un male) al funzionamento delle istituzioni, ma soprattutto richieda maggiore responsabilità e trasparenza ai partiti, nel passaggio tra proclami elettorali e scelte di governo.

E ho il dubbio che proprio la contrarietà a questo punto sia un elemento unificante del variegato e composito “fronte del NO”. Perché da Vendola a Salvini, da Berlusconi a D’Alema, da Grillo a Bersani, ha fatto e farà ancora comodo farsi scudo del “vorrei ma non posso”.

Ma c’è di più. Questo “voto a data certa” viene introdotto anche per ridurre il ricorso alla decretazione d’urgenza da parte del Governo, prassi da tempo criticata, che nella riforma trova un argine preciso nel nuovo articolo 77. Il quale infatti introduce limiti netti al potere del Governo di ricorrere ai famosi decreti da convertire in legge: il comma 5 prescrive che “il Governo non può, mediante provvedimenti provvisori con forza di legge, disciplinare le materie… (segue elenco). Né può “reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti in legge…“, né “ripristinare l’efficacia di norme o di atti che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi…” E in aggiunta si fissano a livello costituzionale i requisiti (per il decreto-legge) dell’omogeneità, della specificità e della corrispondenza al titolo (comma 6) e si prescrive che “nel corso dell’esame di disegni di legge di conversione dei decreti non possono essere approvate disposizioni estranee all’oggetto o alle finalità del decreto” (comma 8).

Cose solo apparentemente ovvie, ma guarda caso spesso trascurate dalla prassi istituzionale, nella quale – vista la lentezza e l’inconcludenza del processo legislativo parlamentare – i vari Governi hanno utilizzato i decreti legge ben oltre i “casi straordinari di necessità ed urgenza”, inserendovi provvedimenti di generi e contenuti vari. Cose che con la riforma non potranno più fare.

Questo articolo mette insomma dei paletti molto precisi al Governo, limitando modi e contenuti della decretazione d’urgenza, quella stessa che per anni le minoranze e le opposizioni hanno criticato. Anche su questo punto la riforma realizza quanto da anni era auspicato e richiesto a gran voce da studiosi e forze politiche, e dalla stessa Corte Costituzionale in varie sentenze (es. 22 del 2012). Stranamente, ora che si passa dalla teoria alla pratica, molti autorevoli firme che si erano spese – almeno accademicamente – contro l’abuso della decretazione governativa, sono oggi schierati per il NO… Hanno cambiato idea?

Il bilancio complessivo dell’intervento della riforma sul Governo è quindi o in pareggio, o in perdita di poteri.

8. LA VERIFICA PREVENTIVA DI COSTITUZIONALITA’ DELLE LEGGI ELETTORALI

La riforma introduce la verifica di costituzionalità “preventiva” sulle leggi elettorali (art. 73 comma 2). Sarà sufficiente che un quarto dei componenti della Camera o un terzo del Senato (154 deputati oppure 34 senatori, numeri facilmente raggiungibili da minoranze un minimo coalizzate) faccia “ricorso motivato” entro 10 giorni dall’approvazione della legge elettorale, per chiamare in causa la Corte Costituzionale che dovrà esprimersi entro 30 giorni. Se la pronuncia è contraria, la legge non può essere promulgata.

Ritengo che in presenza di dubbi su una legge elettorale (anche da parte di partiti di opposizione), sia molto meglio fare la verifica all’inizio, piuttosto che promulgare la legge, tenere le elezioni, poi attendere la sentenza “postuma” della Corte (come è avvenuto col Porcellum). Qualche “costituzionalista” ha storto il naso osservando che il giudizio della Corte dovrebbe “attendere che si producano gli effetti” di una legge, aspettando quindi la promulgazione e l’applicazione prima di giudicarla.
Succede però che uno dei problemi più gravi dell’Italia (un vero handicap rispetto agli altri paesi europei) è proprio l’incertezza normativa, per cui su qualsiasi iniziativa (politica, economica, imprenditoriale, ecc.) pende spesso, come spada di Damocle, qualche profilo di potenziale illegalità o illegittimità. Questo produce un danno immenso soprattutto a livello economico, quindi occupazionale, quindi sociale.

Al di là delle rispettabili opinioni degli studiosi, in questi anni mi sono andato convincendo che la legge deve fornire certezze, per permettere ad una società di fare progetti e scelte. E invece in Italia siamo campioni di un “perfezionismo del diritto” costantemente esposto all’incertezza, che frena qualsiasi iniziativa e allontana investimenti e posti di lavoro. E come si è visto con il Porcellum, la madre di tutte le incertezze è la legge elettorale. Che con la riforma verrà verificata prima, e non dopo.

9. UNA POSSIBILITA’ IN PIU’ PER IL REFERENDUM ABROGATIVO

Sula nuova disciplina dei referendum abrogativi (art. 75) il fronte del NO ha detto molte inesattezze. Non è vero infatti che l’articolo “alza da 500.000 a 800.000 le firme da raccogliere per richiedere il referendum“: la disciplina attuale (500.000 firme + quorum della “maggioranza degli aventi diritto” al voto) continua ad esserci e non viene toccata. Si aggiunge però una ulteriore possibilità, ovvero: “se avanzata la 800.000 elettori“, per l’approvazione sarà sufficiente “la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera“. Ovvero si abbassa il famoso “quorum” che negli ultimi referendum non è mai stato raggiunto, e si aumenta in tal modo la possibilità che un referendum abbia efficacia.

Quindi, a quanti ci spiegano che “il Governo ha paura del popolo e con la riforma vuole restringere gli spazi di democrazia e partecipazione“, dobbiamo rispondere con la nuda verità dei fatti: il testo è chiaro, e dice un’altra cosa. Che estende, non comprime, la democrazia.

10. ELEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Arriviamo all’elezione del Presidente della Repubblica (art. 83), sulla quale la riforma interviene facendo gridare al regime alcuni sostenitori del NO. Vediamo perché.
Mentre oggi il Capo dello Stato viene eletto “a maggioranza di due terzi dell’assemblea” nei primi due scrutini, e “dal terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta” (dei componenti l’assemblea), con la Riforma sarà necessaria:
– la maggioranza dei due terzi dei componenti per i primi tre scrutini;
– la maggioranza dei tre quinti dei componenti dal quarto scrutinio;
– la maggioranza dei tre quinti dei votanti dal settimo scrutinio.

L’allarme degli amici del NO è sul fatto che dal settimo scrutinio il quorum non è più fondato sul “plenum” dell’assemblea, ma sui soli votanti. Ci sarebbe quindi la possibilità che il massimo rappresentante dello Stato venga eletto da una minoranza presente in aula, qualora la maggioranza degli eletti fosse assente.

Come in altri casi, diventa utile considerare un po’ di storia. Quella degli ultimi 68 anni (dall’entrata in vigore della Costituzione) ci dice che la MEDIA dei parlamentari partecipanti alle diverse votazioni relative all’elezione di tutti i Presidenti della Repubblica che si sono succeduti è stata del 98,5 %. Il caso di un presidente eletto da un manipolo sparuto di parlamentari presenti è quindi piuttosto astratto.

La storia degli ultimi 2 anni (da quando il Parlamento discute questa riforma) ci dice che il testo approvato dal Senato in prima lettura prevedeva il quorum della maggioranza dei due terzi dell’Assemblea fino al terzo scrutinio, dal quarto scrutinio la maggioranza dei tre quinti dell’Assemblea e, a partire dal nono scrutinio, la maggioranza assoluta. Ed è stato proprio nel corso del successivo esame alla Camera che la disposizione è stata modificata, allo scopo di garantire le minoranze: in Commissione Affari costituzionali è stata quindi approvata una proposta emendativa volta a rimodulare il quorum, calcolato sui “votanti”, e a innalzare la soglia da “maggioranza assoluta” a “maggioranza dei tre quinti“. In sostanza, l’innalzamento del quorum da 50% + 1 dei componenti (maggioranza assoluta) a 3/5 dei votanti (dato variabile, che non penalizza le minoranze ma le assenze, come è normale in democrazia) è stato proprio voluto e introdotto su richiesta di quelle stesse minoranze che oggi dichiarano di votare contro!

Se io fossi un leader di una forza di minoranza, avrei ben più spazio politico (e quindi ben più margine di influenza) con le nuove regole, che rendono il mio appoggio necessario (o quanto meno rilevante) non più soltanto fino al terzo, ma fino al settimo scrutinio. E che anche dal settimo in avanti mi tiene in campo (i tre quinti sono più della maggioranza assoluta) alla sola condizione che io e i miei compagni di partito partecipiamo alle votazioni.

A meno che non si pensi che tutelare la democrazia significhi tutelare chi – pur eletto in parlamento – ha altro da fare ed è assente dall’aula, per una minoranza è molto peggio la regola attuale (che dal terzo scrutinio la rende irrilevante, perché il 50% + 1 lo si raggiunge senza di lei) piuttosto che quella nuova (che richiede i tre quinti sempre). Votare NO è legittimo, ma non certo in difesa delle minoranze, che su questo punto vedono aumentato, e non diminuito, il proprio ruolo.

11. RIORDINO DELLE COMPETENZE E MENO CONFLITTI TRA STATO E REGIONI

Arriviamo infine al secondo grande pilastro di questa riforma, il superamento della legislazione concorrente introdotta nel 2001, fonte di ulteriore confusione normative e anche di infinite liti tra Stato e Regioni davanti alla Corte Costituzionale.

Innanzitutto la riforma introduce (art 116 comma 3) il principio per cui “forme e condizioni particolari di autonomia” possono essere concesse “purché la Regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”. Le materie su cui le Regioni possono chiedere maggiore autonomia vengono ridotte rispetto ad oggi: con la riforma su materie come Salute, Alimentazione, Protezione civile, Porti e Aeroporti, Grandi reti di trasporto, Produzione e distribuzione dell’Energia, Sicurezza del lavoro le Regioni non potranno decidere autonomamente.

Come tutti sappiamo, uno dei fattori che affaticano la cittadinanza (ed ostacolano gli investimenti nel nostro Paese) è il fatto che “Regione che vai, legge che trovi“: ovvero chi volesse aprire due stabilimenti in due regioni dovrebbe studiarsi due normative regionali sulla sicurezza del lavoro, avviare due procedure, pagarsi due avvocati, ecc. E così per tutto il resto. Come non apprezzare quindi il fatto che la riforma renda più uniformi e quindi semplici le regole sul territorio nazionale? Certo non sarà da sola sufficiente, ma si tratta sicuramente di un primo passo nella direzione giusta (per non dire necessaria…)

Il riparto di competenze tra Stato e Regioni viene completamente riscritto dal nuovo articolo 117, che restringe l’area di competenza legislativa regionale, amplia la sfera di competenza esclusiva dello Stato, ma soprattutto elimina la “legislazione concorrente” tra Stato e Regioni: un’area di sovrapposizione che da quando è stata introdotta (riforma in senso “federalista” del Titolo V del 2001) ha fatto lievitare enormemente le controversie davanti alla Corte Costituzionale, che prima si occupava di conflitti tra Stato e Regioni per il 5% del proprio lavoro, e invece oggi se ne deve occupare per il 40%, otto volte di più.

Oltre alla ridurre un contenzioso abnorme, questo riduce anche l’incertezza normativa dovuta a 20 potenziali legislazioni differenti (ma anche solo 3 o 4) in ambiti che condizionano fortemente la vita delle persone (sanità, assicurazioni, previdenza…) e delle aziende(sicurezza sul lavoro, ordinamento delle professioni, energia…). Il fatto che attraversando un confine di regione oggi si passi da una normativa ad un’altra (con tutti i costi di adeguamento che questo comporta) non aiuta né i diritti di cittadinanza (perché rende complicato e faticoso riconoscere il confine tra lecito e illecito) né l’economia (che poi significa occupazione e posti di lavoro). I sostenitori del NO saranno d’accordo almeno su questo?

12. LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: TRASPARENZA, RESPONSABILITA’, COSTI STANDARD

Il nuovo articolo 97 recita: “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento, l’imparzialità e la trasparenza dell’amministrazione”.

Viene quindi introdotto, accanto ai principi storici del buon andamento e dell’imparzialità, anche quello della trasparenza, ripreso pure nell’articolo 118, che viene innovato con l’introduzione di un comma 2 che recita:
“Le funzioni amministrative sono esercitate in modo da assicurare la semplificazione e la trasparenza dell’azione amministrativa, secondo criteri di efficienza e di responsabilità degli amministratori”.

Vengono qui “costituzionalizzati” principi gradualmente introdotti da previsioni di legge (241 del 1990) e da sentenze della Corte Costituzionale (30 del 2012, 310 del 2010, ecc). E anche entrati nella comune sensibilità dei cittadini. Faccio notare come il criterio dell’efficienza unito a quello della responsabilità, se trovasse adeguata applicazione, potrebbe essere una leva potente di cambiamento della macchina pubblica italiana.

L’art. 119 – che disciplina l’autonomia finanziaria degli enti territoriali – viene modificato eliminando (ovviamente) i riferimenti alle Province, e introducendo il concetto di “indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno” finalizzati a promuovere “condizioni di efficienza nell’esercizio delle medesime funzioni”, in armonia con quanto delineato dalla legge 42 del 2009, tesa a superare il criterio precedentemente adottato della “spesa storica”, che finiva per premiare gli enti più prodighi e inclini allo sperpero.

13. LA “CLAUSOLA DI SUPREMAZIA” E LA RIMOZIONE PER DISSESTO FINANZIARIO

L’articolo 120 – che regola il potere sostitutivo del Governo rispetto alle istituzioni locali, detto anche “clausola di supremazia” – vede l’aggiunta di due elementi: la necessità di acquisire il parere del Senato (obbligatorio ma non vincolante, in coerenza con la sua funzione di Camera dei Territori) e il principio per cui i titolari di organi di governo regionali e locali possono essere esclusidall’esercizio delle rispettive funzioni quando è stato accertato lo stato di grave dissesto finanziario dell’ente”. Principio che dovrà essere applicato mediante una legge di tipo bicamerale, dato che riguarda appunto le istituzioni territoriali, di competenza anche del Senato.

I casi in cui il Governo può sostituirsi agli enti locali restano quelli già codificati: mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria, pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, tutela dell’unità giuridica o economica e la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.

14. VARIE: EQUILIBRIO DI GENERE, MINORANZE, PAESAGGIO, GUERRA, CNEL

Concludiamo con una rapida carrellata di novità “minori” introdotte dalla riforma, ma non meno interessanti.

– Equilibrio di genere
All’articolo 55 viene introdotto il nuovo comma (2): “Le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l’equilibrio tra uomini e donne nella rappresentanza”.
In proposito il NO dice “c’era già l’articolo 51” (che recita: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini“).
Mi sembrano due concetti diversi. Il 51 tutela una “possibilità di accedere in condizioni di eguaglianza” (quindi sancisce un diritto di donne e uomini “ai nastri di partenza”, ovvero a candidarsi con pari opportunità alle cariche elettive), mentre il nuovo 55 “promuove l’equilibrio nella rappresentanza”, che non è un diritto a candidarsi, ma un obiettivo sociale (un Parlamento equilibrato tra donne e uomini). In sostanza, nel 51 il “soggetto tutelato” è il singolo candidato, maschio o femmina, mentre nel 55 nuova formulazione sembra essere l’intera società italiana che “merita” nei suoi organi supremi una rappresentanza “equilibrata” tra donne e uomini in Parlamento.
Su questo punto nutro alcune mie perplessità sostanziali (la combinazione tra regole democratiche e libertà di voto fatica a mio giudizio a raccordarsi con qualsiasi predeterminazione degli esiti elettorali, fosse pure guidata dalle migliori intenzioni di equilibrio di genere, sociale, razziale, ecc…) Ma l’accusa di “doppione” fatta propria dal fronte del NO mi sembra infondata.

– Diritti delle minoranze
L’articolo 64 prescrive che i regolamenti delle Camere devono garantire i diritti delle minoranze e “disciplinare lo statuto delle opposizioni” (che non è il diritto a non apparire sull’elenco telefonico…)
I detrattori scuotono la testa osservando che si tratta di una disposizione assai generica. Vero. Ma esattamente come generiche sono tutte le disposizioni di principio di cui è piena la nostra Costituzione, che appunto delega a leggi e regolamenti l’applicazione pratica e le modalità concrete di attuazione dei principi in essa fissati. E’ generico anche “la sovranità appartiene al popolo” o “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge”: non possiamo lamentarcene solo qui.

– Il paesaggio come bene culturale
Al comma 4 dell’art. 118 (come già al 117 comma 1 lettera S) in tema di tutela dei beni culturali viene aggiunta l’espressione “e paesaggistici“. L’introduzione a livello costituzionale della nozione di “paesaggio” come valore degno di tutela alla pari di un bene culturale mi sembra condivisibile, data l’accresciuta sensibilità rispetto al valore non solo ambientale e naturalistico, ma anche economico del “bene paesaggio”, vista la forte vocazione turistica del nostro Paese.

– Stato di guerra.
La riforma richiede la maggioranza assoluta per la deliberazione dello stato di guerra, laddove oggi è richiesta quella semplice (dei presenti).

– Abolizione del CNEL
L’articolo 99, relativo al Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, viene soppresso. Il CNEL, pensato per offrire a Parlamento e Governo una consulenza da parte di “esperti e rappresentanti delle categorie produttive” è diventato (come tanti altri Enti, virtuosi nelle origini, clientelari negli esiti) nei fatti un consesso di nominati dalla politica (a vari livelli), che in quasi 70 anni ha fatto ben 14 proposte di legge (una ogni 5 anni) delle quali nessuna è diventata legge.
E’ formato da 64 membri (ma erano 121 fino al 2011) e costa circa 20 milioni all’anno tra emolumenti, gettoni e rimborsi. La sua abolizione non risolve certamente i problemi delle finanze pubbliche, ma è un passo nella direzione giusta, di riduzione degli sprechi e delle aree di parassitismo gestite dalla politica.

Concludendo questo capitolo, dopo aver scorso tutte le modifiche apportate alla Costituzione non abbiamo incontrato nulla che possa prefigurare anche indirettamente un rischio per la democrazia e una deriva autoritaria. E’ chiaro allora che tali argomenti, privi di agganci col testo della riforma, vengono lanciati e utilizzati più per spaventare gli elettori che per informarli e farli ragionare. E questo mi dispiace.

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